Il motto scelto assomiglia a quella serie comunicativa contrassegnata dal simpatico nulla, scanzonato e baldanzoso, che si è affermato nel decennio del rinascimento apparente. Se la candidatura non riuscirà a fare tesoro del migliore capitale umano e culturale di cui la città dispone, se non metterà a fuoco dove sono gli stereotipi e dove i tesori sui quali puntare, sarà un'occasione persa. «Si deve vedere che la città è un sistema, un unico corpo solidale» ha detto l'assessore regionale Felicori. E ha detto bene, ma è un dato tutt'altro che acquisito, oggi a Rimini, dove insieme non si decide più nulla.
«Vieni oltre». È il claim che Rimini ha scelto per gareggiare con le altre città italiane contendendosi il titolo di «capitale della cultura». È uno slogan tipo «al meni», di quella serie comunicativa contrassegnata dal simpatico nulla, scanzonato e baldanzoso, che si è affermato nel decennio del rinascimento apparente sotto il regno del sindaco oggi parlamentare. Un decennio che è stato lungo, e prolungarlo ancora tenendolo in vita con la marcia in folle, non è positivo.
Il motto di Matera era stato “open future”, Bergamo e Brescia “cultura come cura”, l’isola della Campania “Procida la cultura non isola”, Parma “la cultura batte il tempo”, per ricordarne solo alcuni.
«Vieni oltre» esprime un pensiero non all’altezza di duemila anni di storia e nemmeno nella prospettiva dei prossimi duemila. Sarà un caso? Forse no. I concetti che si sono ascoltati (non dagli ospiti intervenuti, che invece hanno dimostrato di essere stati profondamente cambiati dall’esperienza di “capitali” della cultura) mercoledì al teatro Galli tradiscono improvvisazione, luoghi comuni (siamo ancora alla “botta d’orgoglio”) e provincialismo.
Il solito elenco dei luoghi memorabili (il teatro del Poletti accostato allo Slego, per carità, no!) e la solita coda di paglia nel cercare di prendere le distanze dallo «stereotipo di una cartolina balneare sempre uguale» (parole del sindaco Sadegholvaad), indicano che il tempo si è fermato a circa mezzo secolo fa.
Capitale Rimini è stata davvero, prima di cominciare a vivere di rendita. È risaputo, se ne è discusso a lungo negli anni Ottanta e Novanta, quando ci si accorse che la vena dell’innovazione e di un certo turismo si era prosciugata. Ma i semi sparsi da varie menti pensanti non hanno attecchito a dovere.
Rimini capitale del turismo, certo, e anche della cultura, ma ormai decenni e secoli fa. Lo stereotipo non è piovuto dal cielo, così come «riminizzazione» è un neologismo che non è entrato per caso, alla fine degli anni ’80, nel Dizionario. Il problema è un altro: lo stereotipo, così come la riminizzazione, sono gli abiti mai dismessi che ancora formano il guardaroba di Rimini. Nell’armadio ci sono anche magliette nuove e abiti vistosi da boutique, ma sono lì in bella mostra anche i vecchi abiti ormai fuori moda. Questo non significa però che la Rimini balneare sia uno stereotipo, è diventata uno stereotipo quando ha smesso di essere fresco laboratorio di tendenze, ma la sua storia gloriosa meriterebbe una riflessione serena. Invece l’impressione è quella di trovarsi in mezzo al guado: con un passato memorabile alle spalle e un futuro avvolto nella nebbia e nella chiacchiera.
Sfida persa in partenza, dunque? Sicuramente no, ma ad una condizione di fondo: che il sindaco faccia “voto di umiltà”. Se non sei Samantha Cristoforetti non puoi metterti in testa di andare nello spazio a bordo della navicella “vieni oltre”. Se non sei Samantha Cristoforetti e aspiri a seguirne le orme, devi studiare, imparare da chi ne sa più, allenarti e sudare, devi circondarti del capitale umano più preparato che la città disponga, superare degli esami e poi… si vola. È emerso anche da tutti gli interventi dei sindaci delle città capitali della cultura, da Brescia a Bergamo a Matera: non ci si incammina in un progetto di questa portata senza coinvolgere tutta la città, sbruffonescamente attorniandosi del solito cerchio magico, e senza la consapevolezza che occorre mettere in discussione i «fondamenti dell’attività amministrativa». Senza cambiare paradigma, senza chiedersi cosa significa cultura e cosa significa città, cosa comporta candidarsi e perché, qual è il patrimonio capitale di cui Rimini dispone e come valorizzarlo. E un ottimo spunto l’ha fornito anche l’assessore regionale alla cultura, Mauro Felicori: «si deve vedere che la città è un sistema, un unico corpo solidale. Se si decide insieme cosa vuole essere Rimini tra 20 anni sarà sempre una vittoria». Parole sagge, ma per nulla scontate perché non sono un dato acquisito, oggi, a Rimini, dove insieme non si decide più nulla.
Si diceva del necessario coinvolgimento di tutti gli attori del territorio. Tra questi si spera ci sia anche la Chiesa, che sul turismo ha appena chiamato a raccolta gli operatori e si è messa in ascolto, e va bene, ma quando ha aperto bocca ha detto che bisogna «fare rete perché Rimini sia sempre più accogliente» e che gli ospiti devono ritornare contenti nelle città d’origine, perché «Dio è contento quando vede i suoi figli contenti». Insomma, da duemila anni di magistero e di cattolica sapienza potrà uscire, auguriamocelo, qualcosa di più.
Rimini ha molte frecce da scoccare ma anche un enorme problema di leadership, di crescita (ancorata a solide fondamenta e non a futili improvvisazioni), di condivisione delle scelte, di «politiche culturali patologiche», per tacer d’altro.
«Evochiamo e invochiamo da tempo e in ogni momento un Rinascimento dalle varie declinazioni – artistica, urbana, imprenditoriale – ma ignoriamo che qualunque Rinascimento ha rimosso il presente e non il passato. Il Rinascimento non appartiene ai signori del presente, e senza il paradigma della memoria non si dà alcuna rinascita, ma solamente feticcio o utopia». L’ha scritto Ivano Dionigi, ex rettore dell’Università di Bologna e professore emerito di lingua e letteratura latina, nel suo meraviglioso Benedetta parola. La rivincita del tempo (Il Mulino); «…l’eredita della storia ci soccorre e ci preserva dall’essere “uomini del momento” (René de Chateaubriand), “servitori della moda” (Nietzsche), “provinciali di tempo (T. S. Eliot)».
Qual è la “biblioteca della memoria” alla quale Rimini può attingere la cultura per tornare ad essere capitale?
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