"Se le 'regole' che faccio rispettare e che rispetto fossero mantenute fino alle venti di sera, cosa cambierebbe? Se invece, come viene ripetuto, 'siamo in guerra', allora si blocchi tutto, ma vanno sospesi tutti i pagamenti". Il punto di vista di Loris Cerbara.
Dicono che domenica le pattuglie di vigili urbani siano passate con una certa assiduità a controllare le attività aperte del centro storico. Viste le immagini dell’altro ieri mattina del porto e del bar affollato di gente, si saranno dimenticati della zona mare. Le foto sono state sparate senza pietà sulle pagine dei quotidiani e su quelle web dei siti giornalistici. Ovunque. Sfogliando “online” i quotidiani inglesi, si trova di tutto e di più, sull’italico coronavirus e il modo di affrontarlo in perfetto “italian style”. I britannici appena tornati da una vacanza nel nostro paese, lo raccontano negli articoli e nei blog delle testate giornalistiche. Alcuni dei commenti che si leggono, fanno rodere (cosa, è demandato all’estro personale), ma tant’è.

Loris Cerbara della Antica Cafeteria
Il giorno dopo la definitiva consacrazione di Rimini a “zona rossa” (e la politica non c’entra), in redazione è arrivata la telefonata di un operatore del commercio cittadino che abbiamo intervistato in occasione della querelle dei “gazebo”. Visto con gli occhi di oggi, il problema dei “dehors” è stato uno zuccherino rispetto alla vasca di letame in cui, economicamente parlando, d’ora in avanti nuoteremo per chissà quanto tempo; non solo a Rimini, non solo in Italia. Ma veniamo alla telefonata di Loris Cerbara, titolare del bar Antica Cafeteria in piazza Tre Martiri che gestisce con la moglie e i due figli. L’argomento della telefonata non poteva che essere legato al Covid-19.
Signor Cerbara, nel messaggio che ci ha inviato prima della telefonata, ci chiedeva la possibilità di esprimere qualche suo parere circa le norme restrittive entrate in vigore domenica.
«Sì. Se mi è consentito, vorrei fare alcune considerazioni, fuor da polemica, rivolgendomi a tutte le associazioni di categoria. Questo, unicamente per cercare di fare un ragionamento molto sereno e arrivare a trovare una soluzione che soddisfi tutti. Ho una mia personalissima opinione riguardo alle ultime disposizioni ministeriali in materia di comportamenti da tenersi all’interno delle cosiddette “zone rosse” nelle quali, purtroppo, abbiamo il privilegio di essere inseriti».
Mentre stiamo trascrivendo la conversazione avuta con Cerbara, apprendiamo che il “privilegio” è stato esteso a tutta l’Italia. Da locali, ora le sue considerazioni assumono carattere ben più ampio, ma la sostanza di quanto sostiene non cambia. Continuiamo a riportare quanto ci ha detto:
«La doverosa premessa è questa: la salute viene prima di tutto. Da cittadino riminese, intendo ringraziare tutti gli uomini delle istituzioni che in questi momenti tanto difficili e dolorosi hanno compiti così delicati e gravosi da assolvere. Ora vengo al dunque. Il decreto ministeriale entrato in vigore domenica 8 marzo, tra le innumerevoli disposizioni, stabilisce che bar e ristoranti possono rimanere aperti dalle sei del mattino alle diciotto del pomeriggio. Mi rendo conto che riguardo ai ristoranti sarebbe stato complicato trovare una soluzione diversa. Per contro, se ragionassimo entro i binari che le istituzioni stesse ci hanno indicato di seguire, per i bar si sarebbe potuto pensare a una scelta temporale differente. Poi dirò quale.
In qualità di gestore e responsabile dell’attività di bar, devo rispettare la distanza di un metro tra un avventore e l’altro. E qua ho già un primo dubbio: se due clienti sono una coppia (ne ho molti, di avventori che sono moglie e marito, mangiano, dormono, vivono insieme, non sono estranei) devo separarli? Metterli in due tavoli diversi?»
Chi controlla non potrà fare investigazioni anche su questo. Se tra un cliente e l’altro ci deve essere un metro, temiamo che questa distanza debba essere mantenuta a prescindere.
«Può darsi che sia così, ma mi piacerebbe che qualcuno mi chiarisse le idee. Ciò detto, ancorché alcune di queste non mi siano del tutto chiare, diciamo che mi hanno dato delle regole. Se non le rispetto incorro in una punizione eclatante: la sospensione dell’attività. In sostanza è come se ci avessero fatto indossare una divisa, ci hanno investito di una carica: dobbiamo fare i controlli in prima persona per essere in regola nel modo più assoluto. Siamo stati responsabilizzati per il nostro e l’altrui comportamento».
È una distribuzione di compiti per alleviare il peso di chi ne ha già tanti…
«Benissimo, è una responsabilità che accetto e di cui mi assumo l’onere. Devo onorare alcune regole. Bene, mi chiedo: se queste regole che faccio rispettare e che rispetto fossero mantenute fino alle venti di sera, cosa cambierebbe? Le stesse attenzioni che metto in campo dalle sei del mattino alle diciotto del pomeriggio, sono le stesse che darei dalle sei alle otto di sera».
Apparentemente, si potrebbe pensare che non farebbe molta differenza.
«Invece la differenza c’è ed è sostanziale. La maggior parte dei locali che hanno l’opportunità di avere i tavolini all’esterno, grazie a quelle due ore possono pagare le spese dell’affitto, dei dipendenti, delle bollette. Toglierci quelle due ore cruciali, per noi è fatale. Commercialmente parlando, farci chiudere alle diciotto equivale a ucciderci. A questo punto, e ribadisco che lo sto dicendo senza un filo di polemica, non capisco perché le associazioni di categoria non abbiano avanzato la proposta delle due ore in più. Può anche darsi che lo abbiano fatto, ma che non sia stata accolta. Non lo so. Vorrei solo venire a conoscenza di come stanno le cose. Del resto, da sempre mi sento parte del tessuto sociale della città in cui lavoro e abito. Mi piacerebbe rendermi utile, nei limiti del possibile, e dare il mio contributo».
Le restrizioni poste sono state studiate per ridurre al minimo il pericolo di contagi…
«Se volessimo guardare la cosa unicamente sotto l’aspetto della salute, e se volessimo dar credito alle frasi che si leggono in internet… ».
Che si legge, in rete?
«Sui social molti scrivono che “siamo in guerra”, “una guerra silenziosa”, “una guerra che può fare molto male” e via dicendo. Se è veramente così, allora dobbiamo fare come se davvero lo fossimo. A questo punto ci si mette tutti in quarantena, si blocca tutto, si ferma tutta la “macchina”. Quindi, chi spende non può più farlo perché non è più in grado di guadagnare, e a chi deve pagare devono essere sospesi tutti i pagamenti: delle bollette, della luce, del gas, dell’acqua. È consentito solo andare a fare spesa (se te la fai portare a casa è anche meglio) e a questo punto le persone che si sono ammalate, in un mese possono guarirsi, non si ha l’intasamento degli ospedali e forse un po’ alla volta si ritornerebbe alla normalità. Questa è solo una mia ragionata, magari semplicistica, non so se potrebbe essere una soluzione, ma se siamo in guerra, dobbiamo difenderci. Non mi possono mandare in trincea senza fornirmi di armi per la difesa, altrimenti mi mandano al macello. Se non mi uccide il Coronavirus, mi uccidono le tue direttive, Governo. Allora, tu mi devi dare gli strumenti per vivere. Se non mi dai i parametri per guarire (a livello economico), allora mi fai morire. Naturalmente estremizzo, è un paradosso. Almeno, dal virus forse guarisco. Vorrei che questi miei ragionamenti, giusti o sbagliati che siano, arrivassero all’attenzione delle associazioni di categoria. Anzi, chiedo loro scusa se mi sono permesso di dire queste cose pur non essendo iscritto a nessuna di esse. Mi auguro che non si offendano. Tutto qua. Questo è il mio semplicissimo ragionamento».
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