Sulla prima pubblicazione degli strepitosi lacerti di affreschi scoperti da frate Federico nel 2021 dietro il coro ligneo della chiesa di Santa Croce di Villa Verucchio, un evento che ha del miracoloso.
PRESENTAZIONE DEL LIBRO SUGLI AFFRESCHI DI VILLA VERUCCHIO RECENTEMENTE SCOPERTI
Venerdì 16 marzo nella sala di palazzo Buonadrata Diotallevi l’architetto Mauro Ioli presidente ella Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini ha presentato il volume Luce sul Trecento, gli affreschi ritrovati di Villa Verucchio, Vallecchi Firenze 2024, frutto di una collaborazione della Fondazione con il Rotary Club di Rimini. È la prima pubblicazione degli strepitosi lacerti di affreschi scoperti da frate Federico nel 2021 dietro il coro ligneo della chiesa di Santa Croce di Villa Verucchio, un evento che ha del miracoloso.
Mauro Ioli, che ha parlato in apertura e chiusura, ha ribadito il compito di salvaguardia e valorizzazione dei Beni Culturali di Rimini e le numerose iniziative, acquisti, conferenze, mostre e pubblicazioni prese dalla Fondazione dai tempi dell’indimenticabile Enzo Pruccoli, e soprattutto riguardanti il ritorno a Rimini di preziose opere come la pala del duca di Norfolk di Giuliano da Rimini e il dossale di Giovanni Baronzio.
Hanno parlato in seguito Alessandro Bassi, rappresentante della casa editrice Vallecchi di Firenze, Giovanni Carlo Federico Villa curatore del testo, e gli autori Alessandro Volpe, Alessandro Marchi, Alessandro Giovanardi, Fabio Massaccesi, e lo scrivente.
LA SCUOLA DI PITTURA RIMINESE DEL TRECENTO UNA GLORIA INTERNAZIONALE DI RIMINI
I nuovi affreschi della chiesa di Villa Verucchio sono stati attribuiti a Pietro da Rimini da Alessandro Volpe e da Alessandro Giovanardi e dagli altri autori col consenso pressoché unanime della critica che si è sinora espressa. I miei giovani lettori – per me ‘giovani’ sono gli appartenenti alle generazioni dai 60 anni in giù ma spero che ce ne siano anche adolescenti – sanno che la pittura riminese del Trecento fu scoperta da Vittorio Belli nel 1916, resa nota al grande pubblico nella famosa mostra del 1935 a cura di Cesare Brandi; replicata per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini nel 1995 con la mostra Il Trecento riminese a cura di Daniele Benati.
Con la scoperta della scuola pittorica riminese del Trecento, Rimini è diventata famosa nel mondo dell’alta cultura europea e degli States dopo che i famosi o famigerati noti antiquari nella seconda metà dell’800 avevano riempito le collezioni d’arte miliardarie e i musei di tutto il mondo occidentale con i “fondi oro”, che finalmente i critici avevano la possibilità di distinguere per i nomi dei maestri e per la scuola.
Non c’è stato critico d’arte di grande o minore importanza nel secolo passato e nel presente che non abbia dedicato ai nostri pittori una ricostruzione critica organica o non si sia occupato in precise ricerche filologiche su questi pittori, indagati qui da noi in tempi relativamente recenti ed esaurientemente dal punto di vista documentale da Oreste Delucca che congettura su una grande famiglia De pictoribus o Pictorum o un’unica impresa comprendente le famiglie dei fratelli Fuscolo, Giovanni, Giuliano e Zangolo Pictorum, e nella generazione seguente Pietro, che firma con Giuliano nel 1324 una pala d’altare nella chiesa degli Agostiniani di Padova, e le famiglie di Francesco e di Giovanni Baronzio, col fratello Deutacomando e il figlio Comando.
Federico Zeri è venuto a Rimini per conferenze diverse volte a parlarci dei pittori del ‘300 riminese. Memorabile la definizione stilistica di Giuliano: taglia le sue figure come un maestro giapponese con le forbici in carta velina; in una conferenza ha confessato di avere scritto una storia della pittura riminese del ‘300, ma per ragioni che non ci ha rivelato non ha voluto pubblicare.
LA DIFFUSIONE DEI CANTIERI PITTORICI RIMINESI DA ZAGABRIA A TOLENTINO
Straordinaria poi si è rivelata la diffusione della presenza di frescanti e pittori di crocifissi e pale d’altare, ma anche di piccole icone domestiche, che si sono spostati da Rimini nell’Italia settentrionale e in Slovenia e nell’Italia centrale, dando luogo anche a fenomeni di nascita e influenza di scuole di pittura locali. I siti sono: Zagabria, la cappella di S. Stefano nel recinto fortificato del duomo; la cappella del castello di Collalto presso Treviso purtroppo distrutta nel 1918, e Treviso; Padova con affreschi nel convento agostiniano e proprio nell’area a pochi passi dalla cappella degli Scrovegni – famosi usurai, tanto per esorcizzare i pittori senza usura di Ezra Pound: il denaro ha la sua personalità forte assai e non è solo farina del demonio –; certamente ci possono essere altre località del Veneto compresa Venezia, e forse in Dalmazia da scoprire; l’abbazia di Pomposa, splendida; Ravenna: le chiese di San Francesco, di Santa Chiara, di Santa Maria in Porto fuori; Bagnacavallo, la pieve; Santarcangelo nel convento di San Francesco; Longiano, nel convento di San Francesco; Faenza, affreschi nell’episcopio; Bologna, affreschi nel grande convento dei Francescani; e poi dappertutto nelle Marche: Talamello, Mercatello Urbino; Castel Durante – oggi Urbania –; e soprattutto nelle chiese e conventi francescani di Iesi, Fabriano, Sasso Ferrato, Monte Ottone; Tolentino, il grandioso Cappellone di San Nicola agostiniano.
IL PARERE DI FRANCESCO ARCANGELI SULLA SCUOLA DI PITTURA RIMINESE DEL TRECENTO
Il primo a parlarmi dei pittori riminesi del Trecento fu Francesco Arcangeli, un anno prima che mi trasferissi a Rimini; eravamo in macchina sulla via San Vitale per Medicina – taberna medicina come il nome romano della c.d. “Domus del chirurgo” – dove volevamo sottoporgli due quadri della chiesa dei santi Mamante e Lucia, che speravamo attribuisse al Guercino – era il 1968 l’anno della grande mostra del Guercino a Bologna –, e che invece declassò ad un pittore di bottega parente e collaboratore del maestro di Cento. Arcangeli ci stava illustrando il bel libro di Carlo Volpe, padre di Alessandro, uscito tre anni prima. Auspicava che ci sarebbero state nuove scoperte, se si fossero estese le ricerche sistematicamente ai conventi, almeno agostiniani, delle Marche e non solo.
I colori dei maestri riminesi, ci diceva entusiasta, sono bellissimi, caldi e vellutati come la pelle di pesche, albicocche e prugne, e smaltati come i mosaici di Ravenna…
LE DONNE DEI MALATESTA ATTIVE NELLA DIFFUSIONE DELLA PITTURA RININESE DEL TRECENTO?
Mi capitò di occuparmi nel 2001 dei pittori riminesi del ‘300 per una mostra sulle donne della casa Malatesta a Verucchio. Di seguito vi racconto quello che trovai seguendo i percorsi delle donne dei Malatesta che andavano spose nelle città dei signori del partito guelfo, alleati dei Malatesta ma non solo, e anche delle donne che sposavano un dinasta Malatesta e venivano a Rimini. Nella cappella del castello di Collalto presso Treviso come erano arrivati i pittori di Rimini? Contessa di Collalto in quegli anni degli affreschi era Chiara da Camino della famiglia dei signori di Treviso. Sua madre era la famosa Gaia da Camino contrastato personaggio dantesco – Purgatorio XVI, 140 – e suo padre era Tolberto da Camino, che aveva sposato in seconde nozze, “ma giura”, Samaritana figlia del quarto signore di Rimini, Ferrantino Malatesta o dei Malatesti, figlio di Malatestino, figlio – forse primogenito, forse terzogenito – di Malatesta da Verucchio. E una.
A Padova nel 1314 era podestà il riminese Bernarduccio Rossi, fratello di Giacoma la moglie di Malatestino, che aveva favorito l’ascesa alla signoria di Padova di Ubertino da Carrara. Seconda moglie di Ubertino da Carrara signore di Padova fu Anna figlia di Malatestino Novello –, figlio di Ferrantino. E due.
Che Ferrantino fosse implicato in committenze pittoriche lo sappiamo da una nota in margine ad un libro religioso da lui pagato, miniato da Neri da Rimini nel 1322, che è un avviso al miniatore: “pingatur ut in ecclesia beatae Clarae” – dipingilo come le pitture nella chiesa della Beata Clara –. (Augusto Campana).
La beata Clara – e tre – è una famosa donna – nell’agiografia passata e presente – la santa “di famiglia”, e oso dire di regime dei Malatesta, certamente il maitre à penser – Giorgia è “il presidente “ del consiglio – anche per quanto riguarda l’arte, dei signori e delle donne della casa.
A Ravenna i da Polenta avevano preso il potere con l’aiuto di Malatesta da Verucchio e di suo figlio Giovanni lo sciancato, al quale era toccata in moglie Francesca figlia di Guido da Polenta – e quattro –. Ho scritto altrove che Francesca sarebbe morta tre o quattro anni prima di Paolo “il bello”, ma questa è un’altra storia che mi ha reso odioso ai dantisti; io però ho seguito il consiglio della mia maestra, la medievista Gina Fasoli che non riteneva la Divina Commedia come una fonte storica sempre attendibile.
Al fratello di Francesca Bernardino da Polenta, padre di un Guglielmo frate della chiesa di Santa Maria in Porto fuori di Ravenna, in seconde nozze venne come moglie Maddalena – e cinque –, figlia di Malatesta da Verucchio e di Margherita Paltonieri da Monselice, l’ultima moglie. Giovanissima madre di Ostasio da Polenta che, ahimè, assassinò a undici anni lo zio arcivescovo eletto – ma non confermato dal papa – che teneva il potere su Ravenna per conto del fratello Guido il giovane, andato a Bologna come podestà… ma i rapporti dei signori ravennati con Rimini furono molteplici e certamente le occasioni di contatti con i nostri pittori, oltre a quelle sempre accettabili degli ordini religiosi non dovevano mancare.
A Bagnacavallo era arciprete della pieve Guido dei conti di Cunio fratello di Marco castellano di Bagnacavallo, marito di Simona figlia di Malatesta da Verucchio – e sei –. Ho usato principalmente i testi di Luigi Tonini, ma non sono affatto sicuro che siano corretti quanto ai nomi, soprattutto per i di Cunio. Queste note richiedono ulteriori ricerche.
A Faenza era andata moglie di Francesco Manfredi signore della città, Rengarda figlia di Malatesta da Verucchio e di Concordia la prima moglie; – e sette –; gli aveva dato uno squadrone di figli: Rigio, Tino, Albergettino, Onestina, Catterina, Margherita, Lasia.
Strette erano le parentele dei Malatesta con la famiglia di Montefeltro, ramo guelfo, per spiegare i rapporti con i pittori di Rimini. Un documento pontificio del 1288 ci mostra due promessi sposi: Tino di Giovanni “zotto” e della seconda moglie Zambrasina e Agnesina di Corrado da Montefeltro figlio di Taddeo, capo guelfo della famiglia – in contrasto con i ghibellini Guido e parenti – che chiedono al papa il permesso di sposarsi malgrado il quarto grado d consanguineità. Tino e Agnesina sono cugini e hanno in comune una zia o uno zio; ma chi?
Moglie di Pandolfo il figlio di Malatesta da Verucchio e di Margherita di Conselice è una Taddea alla quale nessuno ha mai dato un cognome, ma se si pensa che sia figlia di Taddeo di Montefeltro e sorella di Corrado, padre di Agnesina, tutto va a posto. Taddea potrebbe essere allora l’ottava donna che stabilisce un contatto con i pittori di Rimini, per Urbino e l’area urbinate.
La nona donna è Bellucia figlia dello sfortunato signore di Jesi Tano Balugani venuta a Rimini sposa di Ferrantino Malatesta. A Jesi si ammira ancora oggi un grande affresco con la Crocifissione nell’abside della chiesa di San Marco.
Per le altre località marchigiane i rapporti coi pittori di Rimini saranno stati assicurati principalmente dai Francescani e dagli Agostiniani. Rimane da precisare il nome della moglie del signore di Tolentino che ebbe una parte nella committenza della decorazione del cappellone di S Nicola.
UNA RICERCA FUTURA SU UN FENOMENO DI GILANÌA O DI GRANDE PROTAGONISMO CULTURALE DELLE DONNE DI CASA MALATESTA
Per trasformare l’ipotesi o congettura di un grande momento di “gilanìa” delle donne di almeno tre generazioni della casa Malatesta, unite, si può pensare, nella corte di Rimini intorno alla matriarca Margherita da Conselice, giova anche il particolare costume di corte femminile di ispirazione greca classica – moda bizantina – con la cintura sotto i seni che crea pieghe bellissime e solenni nell’andare dei cortei religiosi e perché no? nelle danze. È un costume di corte che si trova raffigurato anche nei dipinti di Venezia e dell’area bizantina balcanica. Giotto, o il suo esperto nei panneggi, deve averlo studiato con molto interesse a Rimini, tanto poi da adottarlo e raffigurarlo a Padova con la precisione di un sarto di haute couture.
NELLE CHIESE DI VERUCCHIO DOVEVANO ESSERCI QUATTORO CROCIFISSI DEL TRECENTO, NE È RIMASTO UNO SOLO, COME RISOLVERE IL MISTERO
Il mio intervento è stato breve e per il poco tempo a disposizione mi sono limitato a proporre a eventuali giovani ricercatori di risolvere il problema dei due o forse dei quattro Crocifissi dipinti di Verucchio. Al momento abbiamo solo un Crocifisso dipinto nella chiesa Collegiata, già chiesa conventuale di San Francesco, voluta dai Malatesta nel 1320; attribuito a un anonimo “maestro di Verucchio” e di recente al maestro Francesco da Rimini. Giuseppe Pecci lo identificava col crocifisso della chiesa francescana. C’erano a Verucchio quattro chiese nel ‘300 che certamente avevano Crocefissi dipinti. Una era la pieve dove il giovane Giuseppe Garampi vide un Crocifisso dipinto, con il Pantocratore, i Dolenti Maddalena ai piedi del Martire, negli anni ’40 del ‘700 prima di andare a Roma per la sua carriera ecclesiastica. Questo Crocifisso della pieve come quello dei Francescani di Verucchio e della Villa, e anche degli Agostiniani venne compreso nei beni della Nazione al tempo di Napoleone.
Ci sono due o tre Crocifissi forse non perduti ma smarriti nell’area verucchiese, ma la numerosa quantità di documenti dei Beni nazionali conservata a Bologna offre possibilità per una ricerca fortunata.
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