La chiesa strapiena e, all'esterno, una folla dieci volte tanto quella riunita all'interno. Non si è visto il temuto circo mediatico. Perché il gregge a volte è più saggio di alcuni pastori. "Non diamo nostri giudizi", ha detto don Mario Antolini, "di fronte alla morte siamo tutti uguali, e di fronte alla morte abbiamo bisogno di non essere superficiali".
Forse non era difficile prevederlo, ma una marea di gente di queste dimensioni non si poteva dare per scontata. Invece c’era, per dare l’ultimo saluto a Zanza, nel cimitero di Rimini. La chiesa strapiena e, all’esterno, una folla dieci volte tanto quella riunita all’interno. Non si è visto il temuto circo mediatico. Le “condizioni richieste dal rito delle esequie”, come ha tenuto a precisare la diocesi, motivazione che ha fatto decidere don Raffaele Masi a dire di no alla messa funebre in forma pubblica (la concedeva “riservata”) nella chiesa di Regina Pacis, c’erano? Senza dubbio sì. Perché il gregge a volte è più saggio di alcuni pastori. I quali, più che l’odore delle pecore, come ama ripetere papa Francesco, dovrebbero avere il respiro della tradizione della Chiesa cattolica.
Il celebrante, don Mario Antolini, ha tenuto una omelia “asciutta”, essenziale. Ma cattolica. Il primo concetto: “Di fronte alla morte siamo tutti uguali, e di fronte alla morte abbiamo bisogno di non essere superficiali, ma di metterci in silenzio, in riflessione, perché la morte ci richiama al senso della vita“. Il secondo: “Siamo qui non solo come familiari, parenti e amici, ma come credenti”. Il terzo: “Non siamo venuti al mondo per caso ma perché voluti e amati da Dio e ci ritroviamo oggi per pregare in suffragio di questo nostro fratello”. Il quarto: “Non diamo nostri giudizi ma lasciamo che il Signore, che conosce il cuore di ciascuno, possa dare ad ognuno quello che è il frutto della sua esistenza”. E citando S. Paolo ha aggiunto: “Ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso”. Il quinto: “Dio non punisce ma salva, nulla va perduto di noi, nemmeno il nostro corpo“. Che gallo Zanza al cospetto del creatore (“nel porto”, e dunque il conquistatore cortese parte avvantaggiato, “dove hanno termine le nostre fatiche”, come dice S. Agostino, che di peccati ne sapeva qualcosa) con le sue collanine e le camicie scollate degli anni migliori!
Che sollievo quando un semplice parroco senza galloni e senza formalismi ripete la saggezza antica della Chiesa e fa riaccadere il miracolo della immeritata misericordia in mezzo al popolo cristiano. Che non sa cosa sia il rito delle esequie, ma nel cui sangue scorre ancora, in buone dosi, la tradizione cristiana. E la saggezza antica della Chiesa, com’è noto (non più a tutto il clero, però) al massimo condanna il peccato, ma mai il peccatore. E predica da millenni che per l’ultimo dei peccatori c’è stato Uno che è salito sulla croce.
Non è un paradosso che in un clima di misericordia un po’ zuccheroso, che addolcisce la predicazione della Chiesa dei giorni nostri, un parroco chiuda le porte della chiesa ad un suo parrocchiano che torna al creatore? A ben rifletterci no. Perché la Chiesa tutta poveri e povertà, e misericordia zuccherosa, e buonismo a buon mercato, si è allontanata dalla tradizione, che è un’amalgama di fede, esperienza, antica saggezza e incrollabile magistero.
D’altra parte, la Chiesa maestra di umanità non inizia la messa con la richiesta di un umile “perdono dei nostri peccati”? Il popolo cristiano lo sa più delle sue gerarchie e quel popolo oggi ha pregato, accompagnandolo al suo creatore, per Maurizio Zanfanti. Zanza. Ormai spogliato di quel suo abito superficialissimo da playboy, che è solo una costruzione del circo mediatico.
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