Francesco Giuseppe Pianori ripercorre quegli anni: le ragioni che mossero la "rivoluzione" e l'approdo al conformismo istituzionale. E spiega: "Le esigenze e il desiderio di partecipazione che furono all’inizio del nostro tentativo studentesco, si realizzarono poi nel Meeting per l’amicizia fra i popoli e nelle Scuole della Fondazione Karis". Torniamo su una pagina importante della storia di Rimini, raccontata dal libro di Fabio Bruschi.
di Francesco Giuseppe Pianori
La cosa buffa del’68 è come è cominciato per me.
Fabio Bruschi dice giustamente che iniziò come risposta di solidarietà allo sciopero degli studenti ITI di Forlì.
La cosa ci aveva colpito perché non si era mai sentito che degli studenti rivendicassero qualcosa e scioperassero per un loro bisogno reale.
Esistevano gruppi e associazioni giovanili, anche di partito, ma sostanzialmente ciascuna viveva “per sé”.
In GS, cui appartenevo, si viveva un’amicizia cristiana, in cui tutta la vita era coinvolta, lo studio, il tempo libero, la scuola, la caritativa, le decime (il fondo comune). Vivevamo, non rivendicavamo.
Un primo “salto” fu questo: chiedevamo che altri risolvessero un nostro problema particolare.
Il motivo per cui decidemmo anche noi al Classico Giulio Cesare di aderire alla protesta dei “forlivesi” fu: “Abbiamo passato cinque anni al Liceo e non abbiamo mai scioperato; se non lo facciamo adesso non lo facciamo più”. Eravamo alla fine del Liceo. Queste le parole del caro amico Stefano Perugini, adesso Don.
La parola “solidarietà” suona sempre bene alle orecchie di un giovane e offre la possibilità, quasi legale, di saltare un po’ di scuola. Questo il livello di coscienza personale con cui cominciò la “rivoluzione”.
Sembra una barzelletta; ma s’incanalò così quel desiderio di senso alla vita e alla scuola che tutti avevamo in ogni caso. I giovani vogliono sempre essere partecipi.
Le motivazioni culturali vennero dopo.
Come fu decisa l’occupazione.
Dopo lo sciopero di solidarietà il Preside mandò una lettera ai genitori di tutti gli studenti. Una sorta di diffida.
Si prese spunto da questa lettera per indire un’Assemblea di risposta. L’Assemblea si svolse in una sala al primo piano della Gioventù Studiosa, dove aveva sede GS, in Via Cairoli.
I partecipanti erano la minoranza degli studenti del Classico. Alla fine dell’Assemblea, una minoranza ancora più esigua decise di occupare la scuola.
L’occupazione avvenne, come programmato, alla fine delle lezioni. Non uscimmo dalla scuola e ci organizzammo in gruppi di studio, perché volevamo fare una scuola nuova.
Verso sera si pose il problema della continuazione dell’occupazione e, dietro varie pressioni, degli insegnanti e dei genitori, piano piano le file si assottigliarono. Questioni reali suggerivano di andare a casa; ma c’era il timore che il giorno successivo ci sarebbe stato impedito di continuare la nostra azione.
In pochi decidemmo di restare e via via, tutti se ne andarono. Rimasi da solo, deciso a resistere perché “l’Assemblea l’aveva deciso”.
Dopo varie insistenze del Preside e di mio zio, venuto appositamente a prendermi (mio babbo era non vedente), rimasi ostinatamente da solo e mi accinsi a dormire nell’ultima aula a sinistra del corridoio al secondo piano. Ad un certo punto mi raggiunse Eros Gobbi, che volle restare con me e non lasciarmi solo. Unimmo dei banchi e ci apprestammo a passare la notte. Spegnemmo la luce. Dopo un po’ di tempo ci raggiunse il Preside, Prof. Carlo Alberto Balducci, portando due coperte. Ci coprì lui personalmente. Dormimmo veramente poco e male sui banchi quella notte.
L’indomani fummo salutati come eroi. Altri studenti ci raggiunsero al secondo piano, di cui occupammo tutte le aule usando dei banchi per fare barricate alla fine del piano dove cominciavano le scale. Alcuni professori cercarono di dissuaderci. Una prof giovane, Vatta, ci chiese il motivo dell’occupazione e in nome di chi lo facessimo. Le risposi mostrando i “Pensieri” di Pascal e lei se ne andò scandalizzata; era di sinistra. Continuammo il lavoro dei gruppi di studio mentre al primo piano si svolgevano le lezioni.
Andai a casa per riposare un po’ e tornai nel pomeriggio con un materasso, intenzionato a restare la seconda notte. In cinque eravamo intenzionati a restare a dormire la seconda notte.
Verso sera giunse un Commissario di PS, ben conosciuto da noi, che ci recapitò una denuncia contro ignoti per occupazione di edificio pubblico e interruzione di pubblico servizio. Alcuni volevano resistere; ma io decisi di cedere e li convinsi ad abbandonare l’aula e terminare l’occupazione. Un amico, che noi chiamavamo “il boyscout”, uscendo scrisse sulla lavagna “Hanno fatto un deserto e lo chiamano scuola” imitando la famosissima frase di Tacito “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”.
Ci fecero passare dal retro, attraversando i locali della Cassa di Risparmio; uscimmo nel cortiletto e dal cancello nel Vicolo Rizzi, di fianco al palazzo. Giungemmo in Corso d’Augusto dove ci aspettavano gli occupanti del Valturio, sgomberato poco prima. Il Classico fu sgomberato per ultimo. Mi venne incontro un amico, Mimmo Pirozzi, che mi abbracciò e io piansi sulla sua spalla. Poi mi sorrise e mi disse. “Vieni, andiamo a prendere una gazosa”.
Eravamo ragazzi.
Il giorno dopo e nei giorni seguenti ci furono assemblee spontanee. Ricordo un particolare. Ero sul tetto a terrazza dell’OMNIA e guardavo gli studenti del Classico che si agitavano e manifestavano. Di fianco a me c’era Don Aldo Amati, assistente di GS allora. Io guardavo di sotto con nostalgia e mi chiese: “Cosa pensi?”
“Non so se quella è la volontà di Dio”.
“Non lo è” mi rispose.
Da allora mi allontanai dalle proteste e mi feci da parte rispetto al Movimento Studentesco.
Un amico carissimo, al racconto di questi fatti, ha commentato anni dopo: “Volevi fare la rivoluzione in nome di Dio, come Che Guevara”.
Ecco il punto: l’ideologizzazione del desiderio di novità e di partecipazione.
Ha ragione Fabio Bruschi; il ’68 fu iniziato dai cattolici.
L’educazione ricevuta in GS e in altre realtà giovanili cattoliche ci rendevano attenti alla nostra realtà di giovani. Il ’68 anche nelle Università vide la partecipazione di cattolici.
Ricordo bene che la FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) a Rimini era molto perplessa all’inizio e non condivideva il movimentismo degli studenti, tendendo infatti più all’organizzazione e all’inquadramento negli schemi ideologici suoi propri.
Il guaio è che la fede si ridusse a ideologia e probabilmente era già inficiata da essa.
Anni dopo, ricordo bene, sentii Don Giancarlo Ugolini affermare: “Noi dicevamo che don Giussani non capiva niente”. Quell’anno e gli anni successivi infatti don Giussani, iniziatore di GS, era stato come messo da parte e lo stesso Don Giancarlo era stato esonerato dal Vescovo Biancheri dal seguire i giovani.
A causa della fede ridotta a impegno volontaristico, GS finì per spaccarsi.
Molti optarono per la sinistra, che pareva offrire analisi e strumenti più adeguati alla situazione, alcuni cercarono di nuovo don Giussani.
Grazie all’amicizia di Stefano Perugini fui invitato a seguire quest’ultimo gruppetto, che faceva riferimento a Don Giancarlo e ricominciò anche per me la possibilità di un’esperienza di fede.
In questo senso non concordo con l’amico Fabio Bruschi sul fatto che alcuni siano rimasti orfani del ’68.
Le stesse esigenze, lo stesso desiderio di partecipazione, che fu all’inizio del nostro tentativo studentesco, si realizzarono poi nel Meeting per l’amicizia fra i popoli e nelle Scuole della Fondazione Karis negli anni successivi, in un rinnovato impegno sociale ed educativo.
Il Movimento Studentesco in questo senso fu tradito, perché fu preso in carico dalla sinistra e opportunamente diretto verso un ribellismo sterile o un conformismo istituzionale. Il partito di lotta e di governo, il PCI, catturò i giovani e li inserì nei suoi ranghi, riducendo fortemente quella spinta alla costruzione e alla responsabilità con cui eravamo partiti. Alcuni scelsero di far parte degli extraparlamentari, alcuni, come Sandro Bianchi, che pure era un ragazzo intelligentissimo, optarono per l’impegno sindacale nella CGIL, altri furono assunti in organismi culturali; ma nessuno di essi portò poi un contributo originale, a mio parere.
Le Istituzioni seppero assorbire la nostra spinta alla partecipazione concedendo organi di rappresentanza “fittizia”. E’ sotto gli occhi di tutti che cosa è la scuola pubblica oggi.
A portare avanti le nostre esigenze, a mio parere, fu proprio Don Giancarlo e CL, con l’insistenza sulla libertà di educazione, fino alla costituzione delle scuole dell’attuale Fondazione Karis. Il bellissimo libro di Valerio Lessi “Il destino si è fatto buono” (il titolo è di don Giancarlo) racconta molto bene da chi e da che cosa nacque il rinnovato interesse educativo.
La storia di CL nelle Università negli anni successivi descrive bene in che senso CL ha portato avanti le esigenze del ’68 valorizzandole, sempre “contestata” da don Giussani sulla ideologizzazione dell’impegno e della fede.
L’assunzione da parte del Partito Comunista e derivati della direzione del movimento del ’68 ha isterilito le stesse esigenze e le persone che si sono affidate ad esso.
Con tutto questo io sono grato a Fabio Bruschi per il serio lavoro documentaristico e storico su quel periodo e per averlo ritrovato come amico, dopo anni di silenzio e di lontananza reciproci.
Non rinnego nulla di quegli anni e di quei momenti, perché fanno parte della mia vita.
Mi dichiaro ancora un sessantottino, non per orgoglio, bensì perché, come recita Ada Negri, “Tutto fu bene anche il mio male”. Ingenuità giovanili, incontri provvidenziali, malattia, errori e delusioni, tutto mi sta portando al destino. Molti anni fa, la psichiatra che mi seguiva, Dr. Elena Amsiano, mi disse: “Tu realizzi il tuo destino non “nonostante” la tua malattia, ma “attraverso” di essa”. Allora incominciò la mia guarigione.
Questo vale per ogni cosa.
Nella foto d’apertura, tratta dal libro (così come quella che ritrae il prof. Balducci) di Fabio Bruschi, “A Rimini il 68 degli studenti”, lo sciopero degli studenti davanti a palazzo Buonadrata, sede del Liceo Giulio Cesare, il 31 ottobre 1968.
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